STELLE
CADENTI
Miti
e leggende
a cura di Patrizia Penazzi
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“E tu, Cielo, dall’alto
dei mondi
sereni, infinito, immortale
oh! D’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!”
Nell’ultima
quartina della poesia “X Agosto” Giovanni
Pascoli ci parla delle stelle cadenti associandole, in questa sua
rievocazione poetica dell’assassinio del padre avvenuto il
10 agosto del 1867, a lacrime di dolore.
Di miti e leggende sulle stelle cadenti ce ne sono molti. Stralci
di vecchi appunti provenienti da fonti ormai dimenticate, mi hanno
aiutata a ricostruirne qualcuno.
Uno tra i più comuni è quello che si riferisce a San
Lorenzo.
La tradizione vuole che le lacrime di Lorenzo arso vivo sulla graticola
vagano nel cielo senza pace fino a quando non cadono sulla terra
la notte in cui il Santo è festeggiato e cioè il 10
agosto. Così, nella tradizione, chi la notte di San Lorenzo
ricorda il santo ed il suo sacrificio ed alla vista di una stella
cadente esprime un desiderio vedrà esaudito ciò che
chiede.
Nel medioevo, la scia luminosa causata dalla caduta delle stelle
è stata messa in relazione con il viaggio dei defunti, in
altre parole fu interpretata come un movimento ascendente, discendente
o semplicemente di mutamento di luogo, compiuto dalle anime dei
trapassati.
Plinio, Rutilio Palladio e Marcello connettevano la caduta delle
stelle: il primo con quella dei calli (Naturalis Historia, 28);
il secondo con quella delle verruche (Opus agricolturae)
ed il terzo la considerava vantaggiosa per la cura delle malattie
degli occhi (De medicamentis).
Nell’antica Sparta, invece, la visione di una stella cadente
aveva per così dire un significato “politico”.
Accadeva, infatti, che ogni nove anni i magistrati sorveglianti
scrutavano il cielo. L’eventuale caduta di una stella era
interpretato come segno sfavorevole degli dèi nei confronti
del Re, che veniva deposto.
L’aspetto religioso appare in diverse tradizioni.
Nella letteratura dell’antica India, le stelle cadenti sono
paragonate a demonesse dai capelli discinti (Kausika Sutra,
126, 9; Atharva Veda, V. 17, 4).
La più recente visione degli indù pare sia quella
di ritenere, ogni stella cadente, un’anima che ridiscende
sulla terra per reincarnarsi.
In Europa si parla delle stelle cadenti come d’anime che,
liberate dalle sofferenze del purgatorio, chiedono all’osservatore
la recita di un “Padre nostro”.
Gli antichi abitanti dell’Iran all’epoca in cui era
praticata la religione zoroastriana, ci hanno tramandato un bellissimo
mito, dove si descrivono le malevolenze delle stelle cadenti e la
loro sconfitta per mano del dio Tishtrya, in altre parole Sirio
nella costellazione del Cane Maggiore.
La credenza risale ad un periodo compreso tra il X secolo a.C. ed
il VII secolo d.C.
In quel tempo, le genti dell’Iran credevano che la vita del
cosmo fosse dominata dalla contrapposizione tra il principio dell’ordine
cosmico e della verità (asha) ed il principio del
caos e della menzogna (druj); è la stessa contrapposizione
che si trova nei Veda indiani, ma l’antico Iran le diede un’enfasi
particolare che coinvolse direttamente l’uomo sul piano morale
e personale imponendogli una scelta radicale.
Il dio unico e garante dell’ordine era Ahura Mazda, chiamato
durante il Medioevo persiano Ohrmazd; il suo antagonista era Angra
Mainyu, più tardi denominato Ahriman: quest’ultimo
era lo spirito inferiore che aveva deliberatamente scelto la via
oscura e che operava per sconvolgere il creato, portandovi morte
e distruzione. Animati da questa visione così rigorosa e
complessa, gli antichi Persiani non poterono evitare di compiere
speculazioni sulla volta celeste. Secondo la cosmologia zoroastriana,
infatti, l’ordine cosmico dispiegato da Ahura Mazda nella
sua opera creatrice è rappresentato dalle stelle fisse, la
cui luce si contrappone a quella del Maligno.
Queste stelle erano considerate come divinità minori ed erano
poste nel cielo più basso, mentre il Sole e la Luna erano
collocati nei cieli superiori, più vicini al paradiso.
Il movimento disordinato ed imprevedibile delle stelle cadenti,
indusse gli zoroastriani a credere che esse appartenessero alla
schiera delle forze demoniache scagliate dal maligno Angra Mainyu
per produrre siccità e per sconvolgere l’ordine armonioso
del cielo.
Così, proprio alle stelle cadenti assegnarono il nome di
“streghe” o di “stelle verme” e le immaginarono
capeggiate dalla demonessa Duzhyairya, la ”Strega della cattiva
annata”, che aggredisce con prepotenza tutte le stelle del
cielo.
Il compito di sconfiggere le streghe e proteggere gli uomini fu
attribuito a Sirio: sotto le sembianze del dio Tishtrya, l’astro
si armò per combattere una duplice battaglia, la prima in
cielo e la seconda in terra.
I versi dell’Avesta, il libro sacro degli zoroastriani, catturano
lo splendore di Sirio paragonandola ad una freccia scagliata dal
più bravo arciere dell’universo. Tali sono la sua rapidità
e la sua precisione che le forze demoniache delle stelle cadenti,
si ritirano in una fuga disordinata mentre la “Strega della
cattiva annata” è immobilizzata con un incalcolabile
numero di lacci. Vittorioso, il dio può finalmente annunciare
con orgoglio la definitiva sconfitta dell’armata delle tenebre.
La seconda gran lotta del dio Tishtrya è quella condotta
in terra contro la siccità, per la “liberazione delle
acque”. Il nemico terreno di Sirio in questo caso è
un terribile cavallo nero di nome Apaosha, che impedisce al lago
celestiale Vourukasha di fluire verso le regioni terrestri. Il mostro
trattiene le acque e così facendo crea la siccità,
favorita anche dall’influsso delle stelle cadenti.
Che cosa può fare il dio benevolo per contrastare la duplice
minaccia? Il mito dice due cose: la prima è che il 17 luglio,
quando comincia a spuntare il Sole, Sirio si trasforma tre volte;
la seconda è che ciascuna di queste trasformazioni ha la
durata di dieci giorni (trenta sono i giorni che il calendario zoroastriano
dedicava a Tishtrya). La prima volta Sirio si presenta come uno
splendido quindicenne, la seconda come un toro, la terza come un
cavallo bianco con la criniera ed i finimenti d’oro.
In quest’ultima veste il dio Tishtrya ingaggia una furiosa
lotta contro Apaosha: il cavallo bianco ed il cavallo nero intrecciano
le loro zampe in combattimento, mentre le acque del lago celestiale
prendono anch’esse forma di cavalla. Dopo tre giorni e tre
notti di battaglia il dio chiede aiuto ad Ahura Mazda, che lo soccorre
potenziando la sua forza ed il suo splendore. Nell’attacco
successivo, che si svolge a mezzogiorno, sarà il demone della
siccità a venir messo in fuga.
Sirio s’immerge nelle acque del lago Vourukasha che si gonfiano
e salgono in forma di nuvole, pronte a ricadere come pioggia sulla
terra riarsa. Ciò insegna l’antico mito: quando la
terra, in estate, è assediata dalla sete sottomessa agli
infausti influssi cosmici delle stelle cadenti, il cielo non abbandona
gli uomini e, grazie al virtuoso splendore di Sirio, promette il
refrigerio delle piogge e l’apertura di un nuovo ciclo vitale.
Nella mesopotamia, l’interpretazione data alla comparsa delle
stelle cadenti era legata, nella sua positività o negatività,
alla direzione del corpo celeste.
Nel libro dello zodiaco dei Mandei dell’Iraq, (setta gnostica
ancora esistente) si legge, tra l’altro, che la caduta di
una stella da ovest verso est non porterà pioggia in tutto
l’anno, presagio dunque di siccità certamente diffuso
in molti miti legati alle stelle cadenti.
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